Il design riveste una parte importante della progettazione in Flowing e per ottimi motivi.
Innanzitutto gli approcci cosiddetti “design-driven” abilitano un maggior focus progettuale sull’utente, anzi, sull’umano che userà un prodotto o servizio. Concentrandosi su reali esigenze e problemi da risolvere, portano a costruire soluzioni di significato: utili cioè ad almeno un gruppo di persone e, di conseguenza, dotate di valore per il mercato in cui operano i nostri clienti.
In secondo luogo, i framework progettuali che si rifanno agli approcci del design prescrivono fasi iniziali di “esplorazione”, chiamate anche empatia, ricerca, immersione, a seconda del particolare framework o approccio (Brown T., Change by Design, 2015): in Flowing questa fase del processo viene chiamata Discovery.
Un format strategico e un momento seminale al progetto in cui si raccolgono informazioni importanti per la sua buona messa a terra: attraverso attività di ricerca specifiche, si attinge alla “viva voce” degli utenti, degli stakeholder e del mercato; ciò è importante nel momento in cui vogliamo costruire prodotti che siano desiderabili, tecnologicamente fattibili e commercialmente interessanti. Ne ha parlato con grande chiarezza Alessandro Violini in questo articolo.
I tre prerequisiti di un progetto di successo secondo la visione del design thinking (fonte: Ideo)
Attenzione! Questo non vuol dire che alla discovery partecipino solo designer: i nostri team sono per natura cross-funzionali, data la complessità tangibile dei progetti e la quota ponderosa della componente tecnologica e di sviluppo. La partecipazione attiva dei developer è un elemento di valore aggiunto (e, in ultimo, di vantaggio competitivo), concretizza la vocazione alla collaborazione interdisciplinare che è un tratto caratteristico del design, appunto.
Fatta questa grande premessa, è bene entrare nel vivo di quelle che sono le attività di ricerca che stanno sotto il cappello dello Human Centred Design (Norman, D, Principles of Human Centred Design, 2018).
Questo articolo farà luce su una distinzione importante, ma spesso nebulosa: quella tra ricerca quantitativa e qualitativa.
Cerchi numeri o osservazioni?
Sintetizzando al massimo, le tecniche di ricerca quantitative restituiscono dati numerici quantificabili e statisticamente rilevanti, tipicamente interpellando un utente attraverso survey, questionari o studiandone le azioni nel contesto di user test controllati. In breve: la ricerca quantitativa conta occorrenze e costruisce modelli statistici.
Quelle qualitative invece raccolgono osservazioni, intuizioni, segnali e sentimenti della target audience, principalmente attraverso attività interlocutorie con le persone, come le interviste, oppure studi sul campo, come l’etnografia (oggi diventata più accessibile e popolare, grazie alle numerose applicazioni mobile).
Per meglio comprendere la differenza, prova a fare mente locale su due tecniche molto usate nella progettazione e nella valutazione delle interfacce web:
- l’A/B test, dove si valuta quale tra due opzioni è la preferita da un gruppo di utenti,
- l’eyetracking, dove si osserva il movimento degli utenti su una schermata.
Nel primo caso, avremo come risultati dei dati quantitativi: scopriremo infatti, inequivocabilmente, quale è il numero di persone che hanno scelto la versione A rispetto al numero di coloro che preferiscono B.
Nel caso dell’eyetracking, invece, il ricercatore osserva i comportamenti dell’utente nell’interazione con un sistema digitale. Le sue osservazioni – ad esempio quali porzioni di un sito catturano maggiormente l’attenzione degli utenti – non sono esattamente traducibili in numeri, tuttavia rappresentano indizi reali: di fatto, ottimi punti di partenza per fare delle ipotesi!
Utilizzare in sinergia tecniche qualitative e quantitative
L’esempio riportato nel paragrafo precedente ci dà il là per capire quali possano essere gli ambiti di applicazione di queste tipologie di tecniche.
Inevitabilmente, gli approcci qualitativi e quantitativi hanno obiettivi diversi: strutturandosi intorno alla raccolta di osservazioni, i primi risultano molto indicati per:
- informare le decisioni progettuali o trovare intuizioni per nuove idee di successo,
- identificare problematiche di usabilità (e formulare ipotesi di soluzioni).
Tendiamo a utilizzare metodi quantitativi, invece, quando ci poniamo come obiettivi:
- la valutazione dell’usabilità su un sito o una piattaforma;
- la quantificazione dell’impatto, di una data modifica o implementazione;
- l’analisi benchmark con i competitor.
Oltre ad avere obiettivi diversi, queste tecniche si prestano anche a fasi distinte nel processo di design: l’approccio qualitativo tendenzialmente dà il meglio quando si ha a disposizione un prodotto funzionante, che sia un prototipo in fase avanzata o un sistema interattivo da riprogettare; mentre le tecniche quantitative possono venire adoperate sia all’inizio che alla fine di un ciclo di design, l’importante è avere un prototipo funzionante di qualunque livello di fedeltà.
I consigli di Flowing
L’obiettivo delle attività di discovery in Flowing è ovviamente la consegna di insight utilizzabili e di valore per i clienti, unitamente ad una roadmap di implementazione del progetto.
Partendo dal presupposto che esista una sinergia benefica tra l’ambito qualitativo e quantitativo, il fine delle nostre attività di ricerca è sempre l’esplorazione e la validazione di ipotesi, che possano condurre sia a valutare correttamente lo status quo, sia stabilire il da farsi progettuale e ancora – perché no – a percorrere nuove, interessanti opportunità di business. Spesso infatti, osservazioni e indizi raccolti sul campo aprono traiettorie inedite e ambiti inesplorati di vantaggio competitivo, i favolosi Oceani Blu di cui parlano J. Kim e R. Mauborgne nel best seller Blue Ocean Strategy.
Detto ciò, ci sono alcuni aspetti che prendiamo molto in considerazione nella scelta delle tecniche e degli approcci di ricerca:
- Innanzitutto, non va dimenticato che i metodi quantitativi sono tendenzialmente più onerosi: dovendo produrre risultati statisticamente rilevanti, implicano il coinvolgimento di un campione di rispondenti corposo, nonché iterazioni multiple dei test. Perciò prima di proporre studi quantitativi ponderiamo con attenzione la loro effettiva necessità e opportunità.
- In secondo luogo, la ricerca quantitativa ha risvolti rischiosi. Esistono numerose evidenze che indicano come gli insight degli studi qualitativi siano tendenzialmente più affidabili e sostanziosi dei dati numerici (Nielsen 2011) e anche meno complicati da ottenere: perché il campione disponibile è troppo piccolo per ottenere valori numerici significativi, o per individuare un trend importante; perché la ricerca quantitativa per natura parte da una “classificazione a monte” delle caratteristiche oggetto di misurazione, che taglia fuori ambiguità, occorrenze rare (ma comunque importanti per un obiettivo di ricerca) e fattori di contesto, portando a interpretazioni distorte dei risultati.
In conclusione
La ricerca quantitativa è per natura difficile e molto costosa e va impostata e seguita bene nei minimi dettagli.
D’altro canto, nella ricerca qualitativa i risultati non vengono testati per capire se sono statisticamente significativi o dovuti ad occorrenze casuali: questo implica che non possono essere estesi a campioni ampi con lo stesso grado di certezza dei risultati ottenuti con metodi di ricerca quantitativa.
Ciononostante, per quello che riguarda le attività di discovery che affrontiamo più spesso in ambito di progettazione digitale, la ricerca qualitativa offre insight più che validi e spesso molto illuminanti: ci permette infatti di svelare nuove opportunità di miglioramento di prodotti esistenti, a partire da un segmento di audience che individuiamo insieme al cliente.
Non solo: possono suggerire modalità inedite per generare un impatto positivo sul business, sempre a partire dalla consegna di valore agli utenti finali.